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Sopravvivere al razzismo. Il calcio e la ribellione necessaria (di Igor Trocchia su Avvenire)

Sopravvivere al razzismo. Il calcio e la ribellione necessaria (di Igor Trocchia su Avvenire)

Quando ho visto Mario Balotelli calciare con forza quel pallone verso la Curva dello stadio di Verona, la prima cosa che ho pensato è stata: quel ragazzo se ne frega di far parte di un 'protocollo'. Di rispondere sempre alle solite, vuote regole imposte dal sistema. Per chi ha giocato e allena – oggi sono il ct della Nazionale dei sordomuti –, rispondendo prima di tutto alle regole della sportività e del fairplay, la sola cosa che si fa in questi casi è agire d’istinto: quello di sopravvivenza. Perché chi dovrebbe proteggerti da certi attacchi razzisti, purtroppo spesso non lo fa e l’indifferenza è pari alla violenza verbale (con i loro 'buu') dei pochi o tanti che si scatenano contro chi è 'diverso' e contro la civiltà. La discriminazione l’ho vissuta molte volte sulla mia pelle da ragazzo, quando mi sentivo urlare 'terrone' (in quanto figlio di napoletani, arrivato a Bergamo all’età di 12 anni) e poco mi importava se la mia reazione mai remissiva non piaceva agli altri. Proprio come quel giorno, al torneo esordienti di Rozzano quando i miei ragazzi del Pontisola dopo gli attacchi razzisti al nostro Yassine hanno seguito il mio invito, che per molti ancora oggi è stato assurdo. All’ennesimo coro razzista ho fermato il gioco e ho detto all’arbitro: «Noi torniamo tutti negli spogliatoi, per me la partita finisce qui». Quel giorno, involontariamente, sono diventato un 'eroe'. Per essere riuscito, l’unico in Italia finora, a far interrompere una partita per razzismo. Per questo ho ricevuto il primo 'Premio Fairplay' dedicato alla memoria di un calciatore esemplare come Davide Astori. Poi sono stato ricevuto al Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che mi ha fatto Cavaliere della Repubblica. Ma di contro, il mondo del calcio, specie quello locale della Bergamasca, mi ha chiuso tutte le porte in faccia, perché come Balotelli ho scompaginato gli schemi fissi. Perciò sono il primo ad applaudire Mario e condivido appieno la sua reazione, la determinazione ad abbandonare il campo. Il suo è stato un gesto contro l’ipocrisia, le troppe bugie e i tentennamenti del sistema calcio italiano. Purtroppo il mondo del pallone, a tutti i livelli, giovanile compreso, è omertoso e politicizzato. Magari si potesse ridare la formazione tutta in mano agli Oratori, che riempivano di bellezza e di poesia questo sport e poco importava se non c’era un 'allenatore' o il modernissimo 'educatore di campo'. In Oratorio tutto si svolgeva, e ancora si svolge, con naturalezza anche su quei campetti spelacchiati, pieni di buche di certe parrocchie che non riescono a far quadrare i bilanci ma non chiudono mai le porte. Senza mitizzare, però quello era il vero 'Gioco del calcio'. Resto fiducioso che le cose possano cambiare, ma il cambiamento non deve partire dai grandi stadi sempre sotto i riflettori delle tv, ma dal basso. Mi piacerebbe che la Federcalcio mi desse la possibilità di contribuire a formare allenatori educatori che abbiano a cuore la pedagogia applicata al calcio e soprattutto l’educazione civica nel calcio, attraverso il calcio. Ci vorrà qualche generazione, ma i bimbi sono la nostra speranza contro il razzismo e tutte le forme di bullismo. Demetrio Albertini e il presidente dell’Assocalciatori Damiano Tommasi mi hanno promesso un ruolo nei corsi di formazione, speriamo mantengano la promessa. Io ci sono. Intanto sto con Mario Balotelli e spero di abbracciarlo quanto prima. Quella palla scagliata contro i 'buu' può diventare un calcio davvero importante contro il razzismo.

Forum Oratori Italia
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